Wavel Camp, Baalbeck, Libano.
Muna, 30 anni, vive con i suoi cinque figli e altre sei persone in uno stanzone senz’acqua né elettricità. A Yarmouk, Siria, abitava in una villa con terrazza. La sua vita, dice, è cambiata completamente: «Mio marito è ancora a Yarmouk, ma non ho più notizie di lui da quando l’esercito siriano ha fatto incursione nel campo. Mio padre è morto senza che io potessi vederlo. I miei fratelli non sono riusciti a scappare perché il confine libanese è stato chiuso ai palestinesi. Questa stanza costa 100$ al mese; la paghiamo con i lavori che gli uomini riescono ad ottenere
giornalmente. Vivo con l’incubo di dovere restare qui per sempre. Se non ci fossero gli aiuti internazionali, saremmo tutti morti di fame».
© Giada Connestari.
Tra fotografia e Organizzazioni Non Governative la collaborazione è antica, anche se non sempre si può considerare integralmente positiva. Luci e ombre di un rapporto necessario
Il rapporto tra fotografi (fotogiornalisti in particolare) e ONG è da lungo tempo simbiotico. Da una parte (quella delle ONG) c’è bisogno di produrre immagini per far conoscere e documentare le attività svolte sul campo e dall’altra (quella dei fotografi) poter contare su un supporto logistico, soprattutto in aree particolarmente problematiche è qualcosa di prezioso, quando non del tutto indispensabile. Si tratta quindi molto spesso di un rapporto di reciproca utilità che si tramanda con successo nel tempo. Tutto bene quindi? Impossibile, come sempre, generalizzare proponendo verità assolute che nessuno può offrire. Vale però la pena di puntualizzare alcuni aspetti della questione. Sotto il profilo della professione dipende dal tipo di rapporto che si instaura tra il fotografo e la sua committenza. Esperienze passate suggeriscono che molto spesso la committenza non offre altro che un supporto sul campo, ovvero vitto, alloggio e spostamenti in loco. Tutto il resto invece risulta a carico del fotografo che, sempre in genere, cede i diritti di utilizzo delle immagini pur potendo continuare a utilizzare i propri scatti, ma si assume l'onere di tutte le altre spese, in primis dei costi per raggiungere le località operative. A volte poi il lavoro del fotografo si concretizza in una mostra o addirittura anche in una pubblicazione a carico della ONG. Per fortuna esistono anche casi di ONG che si comportano da veri committenti, prevedendo che il lavoro del fotografo sia considerato tale e quindi retribuito. Sotto il profilo etico il rapporto tra le ONG e la fotografia (più che i fotografi) è abbastanza ambiguo. A fronte di organizzazioni illuminate che utilizzano l’immagine con intelligenza e gusto, ve ne sono altre il cui unico obiettivo è quello di realizzare raccolte fondi. |
In questi casi è possibile tracciare un identikit delle immagini utilizzate: bambini (possibilmente neri) ripresi dall'alto, occhioni sgranati e possibilmente infestati di mosche, pance scoperte e gonfie, aspetto malandato, ma non troppo. Un pacchetto full optional di icone destinate a smuovere i sentimenti di compassione e i sensi di colpa dell’occidentale medio, presumibilmente di cultura afferente al cristianesimo in qualche sua forma. Lo scandalo avviene quando viene richiesto ai fotografi (fatto realmente accaduto) di cedere delle foto per promuove una raccolta fondi per la costruzione di opere in luoghi lontani migliaia e migliaia di chilometri da quelli in cui sono avvenute le riprese «tanto i neri son tutti uguali, l’importante è che abbiano le mosche sugli occhi e la pancia gonfia» (citazione). La costruzione dell’immaginario collettivo che deriva da certe operazioni iconiche è devastante. La nostra Africa è fatta solo di poveri bambini malnutriti e imploranti, stante l’implicita incapacità delle famiglie naturali di provvedere loro vuoi per inettitudine vuoi per contingenze catastrofiche. Sono immagini che mirano solo a commuovere a basso prezzo. Ma l’Africa per fortuna non è solo questo. Ci sono realtà tragiche, certo, ma anche situazioni che da bravi europei (suvvia, siamo pur sempre figli di un continente colonialista!) nemmeno ci sogniamo di immaginare come simili a quelle cui siamo abituati nella nostra quotidianità. Ben vengano quindi le operazioni come quelle proposte dallo Spazio ONG nell’ambito del Festival della Fotografia Etica che mostrano, sia pure con consistenti e a volte censurabili oscillazioni qualitative, la parte sana del rapporto insostituibile tra fotografi e ONG. |
Le mostre dello spazio ONG
TITOLO | AUTORE/I | ONG | ||
Libano, una marea umana di rifugiati | Giada Connestari | OXFAM | ||
When the Others Go Away | Simone Cerio | Emergency | ||
Lamiere | Gianluca Uda | L'Africa chiama | ||
Pig Iron - Il Ferro dei Porci | Giulio Di Meo | ARCS | ||
Il loro futuro, il nostro sogno | Yurij Sokolov - Irina Yeutuhova | Amici di Serena | ||
La giusta distanza. Dall’incontro al dialogo: storia di una cooperazione | Paola Codeluppi - Silvia Morara | MLFM |
Zgharta, Libano.
Alcuni rifugiati siriani attendono la distribuzione dei voucher mensili per l’acquisto di cibo, sapone e kit per bambini, distribuiti dalla municipalità attraverso il partenariato con l’ONG Oxfam Italia. I vouchers possono essere spesi solo nei negozi abilitati: ciò permette ai residenti di trarre indirettamente beneficio dall’assistenza internazionale e promuove l’integrazione dei rifugiati in seno alla comunità.
© Giada Connestari.
Giada Connestari - Nata in Italia nel 1981 e laureata in Storia dell’Arte all’Università di Bologna, Giada Connestari si trasferisce a Parigi nel 2005, dove lavora per tre anni come photo editor prima d’iniziarsi alla fotografia. Nel 2011 pubblica il suo primo libro, intitolato Dimenticami, ormai è tutto spento, basato sui racconti e i ritratti dei ragazzi che vivono per le strade di Bucarest, in Romania. Oggi lavora principalmente su tematiche ambientali e sociali, e collabora con diverse ONG, come Oxfam e Coopi. Le sue fotografie sono state pubblicate sui media nazionali e internazionali, come La Stampa, Libération, FotoEvidence, Intelligence in Lifestyle, Io Donna, BioEcoGeo, Le Monde, Inside Climate News.
Davide Luppi, specializzando in chirurgia generale, è in partenza per l’Afghanistan: terminerà la specializzazione presso il Centro chirurgico per vittime di guerra di Emergency a Kabul. Davide è il primo specializzando italiano ad andare in Afghanistan.
© Simone Cerio/Parallelozero.
Simone Cerio - Nato a Pescara nel 1983, Simone inizia a interessarsi di fotografia circa otto anni fa, con particolare attenzione al linguaggio del reportage e del fotogiornalismo. Nel 2010 vince la menzione d’onore al Festival di Fotogiornalismo di Atri e il secondo premio al Festival di Savignano, che lo colloca di diritto tra i quattordici finalisti del Portfolio Italia 2010. Nel 2011 è selezionato, insieme ad altri importanti fotografi italiani, per realizzare l’annuario speciale di Sette, il settimanale de Il Corriere della Sera, dedicato all’Italia. Ha esposto in Italia e all’estero. Collabora con importanti riviste nazionali e internazionali tra cui Gioia, Il Corriere della Sera, Alibi, Rogue, Vanity Fair, Russia Behind the Headlines, Shutr, Internazionale. Dal 2010 è rappresentato dall’agenzia fotografica Parallelozero e, attualmente, è impegnato in progetti a lungo termine con ONG internazionali.
Gianluca Uda - Nasce a Roma nel 1982, si diploma geometra e successivamente frequenta la facoltà di Lettere Moderne, prima a Roma e poi a Viterbo, ma non è la sua strada. Lavora come barista e come manovale edile finché, nell’estate del 2008, decide di fare un’esperienza di volontariato in Africa. Nella povera città di Iringa, in Tanzania, passerà solo pochi mesi, che gli faranno però capire cosa vuole dalla vita. Dopo l’Africa decide quindi di provare con un’esperienza di servizio civile all’estero. Vince il concorso come Casco Bianco e, nel 2009, parte per La Paz, in Bolivia. Qui nascerà l’idea di raccontare la vita e le esperienze vissute con un romanzo e un libro fotografico: La Mama Calle (La Mamma Strada) è un libro che affronta in chiave ironica e cinica la situazione precaria dei ragazzi di strada che vivono nella città di La Paz, mentre Contrasti boliviani è un libro fotografico che raccoglie immagini di vita quotidiana. Rientrato in Italia, nel 2010 gli viene proposto un periodo di volontariato di un anno in uno dei paesi più poveri del mondo, il Bangladesh, dove si reca per due volte con la comunità Papa Giovanni XXIII. Da questa esperienza sta nascendo un libro fotografico. Il 2011 è invece la volta dello Sri Lanka, un anno passato nella città di Ratnapura e nel villaggio Tamil di Guluawila, altra esperienza a contatto con gli emarginati. Nel 2011 visita anche l’India, questa volta come turista. Il 6 febbraio 2012 ritorna in Africa, ma questa volta la sua destinazione è il Kenya, più precisamente la baraccopoli di Soweto, a Nairobi. Dal 2014 vive in Ecuador.
Giulio Di Meo (Capua, 1976) - È un fotografo freelance italiano impegnato da più di dieci anni nell’ambito del reportage e della didattica. Crede nella fotografia come strumento per informare e denunciare, come mezzo di cambiamento personale, sociale e politico e, da anni, organizza incontri, laboratori e workshop di fotografia sociale e di street, in Italia e all’estero, proprio con questo scopo, portando avanti parallelamente i propri progetti fotografici. Fondatore del collettivo Workshophotolab, è redattore della rivista online Witness Journal e collabora con diverse associazioni e ONG, in particolar modo con l’Arci, con la quale dal 2007 organizza workshop di fotografia sociale in diverse realtà del Sud del mondo (Brasile, Cuba, Saharawi). A partire dal 2003 lavora al progetto fotografico Riflessi Antagonisti sulle realtà e lo sfruttamento dei paesi latinoamericani e, dal 2006, a Obiettivo Saharawi sulle condizioni di vita nei campi profughi. Tra i suoi reportage: Riflessi Cubani (2005) e Tra cielo e terra (2006). Nel 2007 realizza, per il 50° anniversario dell’Arci, il libro Cinquant’anni di sguardi, un viaggio attraverso i circoli in Italia. Del 2008 sono invece il documentario fotografico Casa Luzzi vive e il lavoro Fiori di strada. Nel 2011 torna a occuparsi del Brasile e, nel gennaio del 2013, pubblica il libro Pig Iron, le cui immagini raccontano le gravi ingiustizie sociali e ambientali commesse dalla multinazionale Vale negli stati brasiliani del Pará e del Maranhão. Grazie alle vendite di quest'ultimo sono stati donati, finora, 4.500€ a un progetto teatrale portato avanti dalla compagnia teatrale Juventudes pela Paz, nel nordest del Brasile. Negli anni, Di Meo ha realizzato mostre, calendari, poster e incontri al fine di raccogliere fondi per progetti sociali che si muovono intorno alle realtà di cui si è occupato nei suoi reportage. Attualmente sta lavorando a due pubblicazioni in uscita entro l’anno.
Davanti a casa.
La ragazza, seguita da tempo dal progetto Tizzi perché era una ragazza madre, appena uscita dal PRIUT (orfanotrofio) è rimasta incinta del primo figlio. Ha avuto il secondo figlio dal ragazzo che ha sposato. È ancora seguita dal progetto.
© Yuriy Sokolov.
Yuriy Sokolov - Yuriy nasce il Primo novembre 1961 nella città di Murmansk (penisola Kolskiy) e, dopo un adolescenza nomade al seguito del padre che si spostava continuamente per lavoro, nel 1985 si laurea presso l’Universita Nazionale Aereospaziale di Kharkov (Ucraina). Dal 1987 al 1993 lavora per l’azienda aereospaziale ENERGIA (Koroliov, regione di Mosca) dove è impegnato nel progetto per sistemi spaziali riutilizzabili Energia-Buran. Nel 1993 apre uno studio di design, dove lavora alla realizzazione di libri, calendari e articoli promozionali per i clienti del settore aerospaziale, petrolifero e del gas. Si occupa di fotografia dal 2008, viaggia tanto in Russia e, durante i suoi viaggi ha realizzato due libri di immagini. I suoi interessi attuali sono la poesia e l’arte, la filosofia moderna, la musica in tutte le sue forme (dalla moderna alla classica). Sposato, ha due figli, un maschio di 16 anni e una femmina di 11 anni. Vive a Koroliov e lavora a Mosca.
Peter Pan.
Questi bambini appartengono a una famiglia seguita dal progetto Tizzi, la cui madre ha nove figli ed ha avuto grandi difficoltà a trovare una casa. Ora vivono a Dobrush e il progetto ha trovato loro la casa, i mobili e tutto ciò che necessita una famiglia così numerosa.
© Irina Yeutuhova.
Irina Yeutuhova - Irina nasce il 12 maggio 1963 a Gomel (Bielorussia) e, dopo essersi diplomata, lavora per circa tre anni come educatrice in una scuola dell’infanzia. Comincia la sua carriera artistica come illustratrice per il giornalino scolastico. Dal 1997 al 2000 segue dei corsi presso l’università di Mosca per poter insegnare russo agli stranieri. La sua preparazione universitaria le permette di pubblicare più di cinquanta ricerche scientifico-linguistiche che le consentono di partecipare a diverse conferenze all’estero tra cui, nell’agosto 2013, al Congresso Internazionale sulla lingua slava, tenuto a Minsk. Scrive inoltre poesie, illustra libri per bambini, realizza sei personali di pittura e di grafica. Infine scopre la passione per la fotografia. Attualmente lavora come volontaria in una scuola dell’infanzia a Gomel.
Silvia Morara - Nasce a Bologna nel 1971 e, dopo una laurea in Filosofia e un’esperienza lavorativa di un anno come cooperante in Albania si dedica a tempo pieno alla fotografia. Diverse collaborazioni con agenzie fotografiche italiane la portano dalla cronaca nazionale a quella internazionale. A partire dal 2002 si dedica più all’approfondimento e si sposta verso il continente africano, guidata dalla curiosità e dalla voglia di raccontare storie con tempi più rilassati rispetto a quelli delle news. Negli ultimi anni riscopre la voglia di fermarsi e di fotografare la propria realtà e di approfondire, attraverso le immagini, ciò che spesso è più difficile raccontare: casa propria e se stessi riflessi nell’ambiente in cui si è cresciuti e che non sempre si conosce. Nascono da qui lavori come Let’s dance! e Bonassola, the quiet season, alcune mostre e un libro per bambini. Dal 2011 tiene corsi di fotografia e reportage presso lo Spazio Labo’ di Bologna e, nel 2012, esce il suo secondo libro, Fotografi pronti allo scatto. Nel 2013 espone al Ragusa Foto Festival, mentre nel 2014 uscirà sul web il suo primo documentario, intitolato Io sono Diogene, e questa è la mia terra. Attualmente lavora come fotografa freelance per l’agenzia Corbis.
Paola Codeluppi - Nata a Milano nel 1970, dove vive e lavora, Paola Codeluppi ha iniziato a muoversi nel campo della fotografia come fotografa di scena per teatri e set sia cinematografici sia pubblicitari, oltre a lavorare nell’ambito dello still-life, della pubblicità e del reportage industriale. Si è quindi dedicata al reportage fotografico, collaborando con diverse ONG e viaggiando e fotografando soprattutto in Africa, India e Libano. Dal 2003 lavora anche nella post-produzione cinematografica come colorist, pur continuando l’attività di fotografa e i propri progetti personali.
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