Ogni epoca tende a esprimersi privilegiando forme che, nel medio-lungo periodo, finiscono per costituirne un elemento identificativo. Nelle viscere di questo fenomeno si annida un atto narrativo, una sorta di riflesso primordiale che nasce dalla volontà di rimarcare plasticamente l’avvenuto riconoscimento di un contrasto estetico. Imitazione e astrazione (intesa come allontanamento, non solo figurativo, rispetto al referente) condensano le esperienze precedenti della cultura di cui sono espressione e da cui prende vita quella costante trasformazione implicita nell’adeguamento alla contemporaneità. Attraverso l’espressione artistica la società giunge a elaborare e definire quei modelli che contribuiscono alla creazione e definizione di un sé, tanto individuale quanto collettivo, che non può escludere dal proprio genoma un DNA metabolizzato nelle precedenti esperienze. L’opera d’arte in questo senso può quindi essere intesa, con Heideggher, anche come una grandezza sovrastorica a dispetto della sua determinatezza storica.
Le riflessioni che da ciò possono essere tratte si sviluppano in varie direzioni. Un primo binario d’analisi vede come focus la forma che, ripiegandosi su di sé, sembra rivolgersi alla ricerca delle proprie origini. Di fronte alle composizioni strutturate nel crogiolo della sala di posa, è impossibile non finire sommersi dal reflusso gastroesofageo di un’arte classica occidentale. A colpire è la maniacale perfezione mimetica del gesto, con evidenti evocazioni caravaggesche sottolineate da un’illuminazione che scolpisce la materia a dispetto delle bidimensionalità fotografica.
Un secondo binario indaga invece i contenuti, ben distanti da quanto la tradizione metterebbe in relazione con la forma utilizzata. Lo spettatore si trova dunque di fronte a una sorta di contraddittoria conflittualità tra piano iconico e piano dei contenuti. Da una parte abbiamo infatti un supporto plastico che rimanda alla classicità, mentre dall’altra rileviamo una narrazione che disserta metaforicamente del proprio contemporaneo. In tutto questo si innesca, al cospetto delle opere, il passaggio dallo stato di latenza a quello attivo, che incide negli ambiti della percezione, del pensiero e del comportamento.
Di fronte alle immagini ci troviamo in presenza di un’energia che prende vita tanto dalla forza dell’immagine in sé, quanto dalle reazioni interattive dello spettatore di fronte alle composizioni di corpi. Questa energia permette il passaggio da quell’atto narrativo cui si accennava all’inizio a un vero e proprio atto iconico schematico. Tuttavia non può certo sfuggire a uno spettatore attento lo scambio che avviene tra corpo e immagine (atto iconico sostitutivo), attraverso quei rimandi alla figuratività classica, nonché l’implicita glorificazione della forma che esalta se stessa (atto iconico intrinseco).
In altre parole, il processo che porta al passaggio dalla forma latente a quella attiva dell’immagine si snoda, all’interno delle complesse composizioni, grazie al linguaggio simbolico che sfrutta posture, gestualità e luci che sommergono lo spettatore di certezze acquisite secoli addietro nell’ambito plastico.
Non ci si deve tuttavia fermare alla superficie, confondendo le scelte sul piano formale con una volontà mimetica fine a se stessa. Si tratta solo di un espediente con cui si compie l’accettazione della diretta discendenza del contemporaneo dalle realtà precedenti.
Non finisce però qui. Se da una parte, nutrendosi del suo passato, la composizione metaforica racconta il presente, dall’altra non può nemmeno esimersi dal divenire metafora di se stessa. L’opera, quindi, mentre riscopre la forza delle proprie origini si proietta verso lo spettatore in modo proattivo. Mette in discussione le sue certezze, lo osserva nel suo spaesamento: l’opera acquisisce, come direbbe Lacan, la capacità di guardare l’uomo. Di fronte a immagini in cui le vestigia del passato e le stigmate del presente si fondono, ad esempio, nei tatuaggi dei modelli, l’opera è, sì, nell’occhio dello spettatore, ma allo stesso tempo anche lo spettatore finisce all’interno dell’opera in un cortocircuito in cui si perde di vista chi guarda chi e cosa rappresenta cosa.
L’opera assurge perciò al ruolo di filtro sulla base del quale affilare le lame di uno sguardo reso apatico dall’inerzia. Il linguaggio allegorico, vestito di apparente classicità, si adatta alla contemporaneità, si rinnova, acquisisce significati che aprono le porte alla possibilità di nuove riflessioni. È l’eterno interrogativo sulla condizione dell’essere umano, schiacciato all’interno da precise (e spesso rigide) strutture socio-culturali. Una questione ineluttabile per lo spettatore avveduto, che non può non stupirsi di fronte ai dettagli contraddittori che emergono a dispetto dal modello di prestigio assunto.
La fisicità dei soggetti, l’evidenza di imperfezioni nei loro corpi cancellate dalle nostre menti da decenni di impianti iconici ispirati a un’aleatoria perfezione, ma anche il racconto implicito di precisi portati individuali, restituiscono infine un livello di identificazione con la rappresentazione. Quelli che guardiamo, quelli che dall’opera guardano noi, pur senza rivolgerci gli occhi, non sono solo modelli che recitano un ruolo in un’allegoria dal sapore arcaico. Sono il riflesso in sezione di una società nei confronti della quale nutriamo un interesse speculativo che può essere risvegliato, forse, solo da una forma inattesa.
[ Sandro Iovine ]
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(*) - Frederich Dürrenmatt, Prometeo, Comma 22, Bologna, 2012; pag. 38.
Davide Conti - È nato nel 1970 a Bologna, dove ha frequentato l’Accademia di Belle Arti, diplomandosi nel 1993 in Pittura. Nel 1991 è stato ammesso come borsista al Collegio Artistico Venturoli. Parallelamente all’attività artistica, ha sviluppato una passione per il design grafico occupandosi di progettazione editoriale per una nota casa editrice, facendone poi la sua professione all’interno di grandi aziende e importanti gruppi industriali.
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