editoriale
Ritratto o paesaggio virtuale?
È il 1336. Il 24 aprile 1336. Due fratelli, Francesco e Gherardo Petrarca, si apprestano a scalare il Mont Ventoux. Con loro hanno una copia delle Confessioni di Sant’Agostino. Non senza difficoltà, soprattutto da parte del più anziano Francesco, i due raggiungono la vetta il 26 aprile 1336. Francesco apre il volume che ha portato con sé e ne legge un brano: «Et eunt hominem mirari alta montium et ingentes fluctus maris et latissimos lapsus fluminem et Oceani ambitum et gyros siderum et reliquunt se ipsos nec miratur» (1). Durante l’ascesa (di cui deliberatamente trascuro qui il valore metaforico) Francesco e Gherardo avevano incontrato un vecchio pastore che li aveva messi in guardia. Da giovane era salito in vetta, ma ne aveva ricavato solo fatica e graffi. In effetti il paesaggio così faticoso da conquistare è un insieme di fenomeni naturali fini a se stessi. Giunto in cima al Mont Ventoux, però, Petrarca avverte la necessità di una riflessione più profonda rispetto a ciò che gli si offre alla vista. Una connessione che mette su un piano analogo le ombre sul fondo della caverna del mito platonico con le immagini delle montagne, della valli, dei fiumi, dei manufatti umani. È necessario raggiungere una conoscenza che vada oltre l'evidenza del disegno divino espresso dal mondo naturale, spingendo l’uomo verso una comprensione più profonda di ciò che gli sta di fronte. L’apertura di pensiero che ne deriva fa scrivere a Petrarca quella che nel mondo occidentale è considerata la prima riflessione sul concetto di paesaggio. Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti e le speculazioni sull’argomento si sono stratificate adeguandosi ai tempi, ma la comprensione del paesaggio rimane un territorio complesso e articolato. L’antropizzazione offre in questo senso gli spunti più interessanti, sia per le conseguenze che a essa si riconnettono sull’ambiente, sia per le suggestioni implicite sulla percezione stessa del paesaggio. Se assumiamo con Merleau-Ponty che ciò che ci circonda non sia costituito solo dalle cose naturali, ma anche dai prodotti dell’ingegno umano (2), nel momento in cui la nostra analisi si spinge al paesaggio non sono pochi gli stimoli che ci portano a spaziare da luoghi che ci siamo abituati a considerare incontaminati – ma che in realtà tali non sono, come argomentava qualche anno fa con la sua ricerca fotografica Salvatore Ligios (3) – a luoghi in cui l’uomo pur non avendoci ancora messo fisicamente piede, già marca la sua presenza con i propri manufatti. |
Per arrivare addirittura (vedi il prossimo numero di FPmag) a luoghi virtuali in cui il paesaggio diviene figlio virtuale di un giocatore-demiurgo che con l’aiuto di sofisticati algoritmi lo genera di volta in volta. Per questo, e con un chiaro intento provocatorio, apriamo questo numero con una fotografia di Enzo Bruglieri, ottantaquattrenne professionista beneventano, incontrato durante un workshop. Mentre mi mostrava le sue raffinatissime immagini di moda realizzate a Parigi negli anni Sessanta, mi hanno folgorato dei ritratti cari al mondo fotoamatoriale per concezione. Ma cosa c’entrano dei ritratti in un numero dedicato al paesaggio, alla sua antropizzazione e alle relative conseguenze? C’entra (provocatoriamente, lo sottolineo nuovamente) perché sullo sfondo si intravede un paesaggio, lontana e vernacolare memoria degli sfondi rinascimentali. Ma si tratta di un paesaggio che oggi definiremo virtuale, in quanto non esiste, se non nella fantasia di Bruglieri che lo ha fisicamente dipinto prima di anteporvi i propri modelli. Versione semplificata di alcuni fenomeni che proponiamo all’attenzione dei nostri lettori in questo e nel prossimo numero e che, per il gioco delle connessioni, ci rimanda a quella fotografia africana divenuta colta per volontà di attenti e smaliziati curatori francesi.
[ Sandro Iovine ] (1) - «Gli uomini, invece, vanno ad ammirare le vette dei monti, le imponenti onde del mare, la vastissime correnti dei fiumi, l’estensione dell’Oceano, le orbite degli astri, e abbandonano se stessi.» Agostino, Confessioni, Bompiani, Milano, 2012; pag. 908. (2) - «Il mondo percepito non è solo l’insieme delle cose naturali, è anche quello dei quadri, delle musiche, dei libri, di tutto quello che i tedeschi chiamano mondo culturale.» Maurice Merleau-Ponty, Conversazioni, SE, Milano, 2002; pag. 75. (3) - Salvatore Ligios, Il paesaggio invisibile, Poliedro, Nuoro, 1998. |
Due parole sul numero
I numeri di FPmag si sviluppano per connessioni che collegano gli articoli fra loro intorno a una tematica di massima. Queste connessioni possono avere varia natura e riferirsi al contenuto degli articoli, alle affinità tematiche, semantiche, stilistiche, di genere, di approccio al tema, sia pure con differenti medium, etc.
Per questo, ogni numero può essere sfogliato sia in modo tradizionale (articolo dopo articolo in base alla disposizione scelta dalla redazione) sia randomico (partendo da un punto qualsiasi e poi ricollegandosi attraverso fili logici che connettono ogni articolo al successivo e al precedente).
Lo scopo è quello di suggerire al lettore la possibilità di sviluppi personali della ricerca semplicemente partendo da quelle che sono state le nostre riflessioni.
In questo numero partiamo dalla visione delle zone desertiche della Namibia note come Skeleton Coast. Centinaia di chilometri quadrati di territori inospitali e difficili da raggiungere tanto via terra quanto via mare, eppure carichi di segni di antropizzazione raccolti, alla ricerca della loro anima, da Edoardo Miola. Dal deserto della Namibia si passa ai paesaggi privi (o quasi) di soggetti umani di Wim Wenders, dove la presenza edificatrice dell’uomo è comunque in prepotente evidenza. Wim Wenders con le sue colonne sonore ci riporta al deserto con le scene iniziali di Paris, Texas e, soprattutto, alle musiche che lo descrivono firmate da Ry Cooder. Dai paesaggi musicali del deserto terrestre ai paesaggi marziani delle foto NASA scattate sulla superficie di Marte, pianeta in cui, per quanto ci è dato sapere, l’uomo non ha ancora posato il proprio piede, ma che già ne denuncia la presenza attraverso i dettagli delle macchine che lo hanno ripreso. Da Marte lo sguardo torna sulla terra con un’immagine di Venezia di Samantha Cristoforetti, che ci proietta all’analisi fotografica sul MOSE di Stephen Shore e Walter Niedermayr. |
Un salto attraverso il mare ci conduce invece alle riprese realizzate da Gabriele Basilico nel 1992 a Beirut, su una sponda lontana del Mediterraneo sconquassata dalla guerra. La realtà devastante del conflitto ci fa tornare indietro, a due passi da casa, in una Milano periferica che pochi conoscono e che per tanti aspetti assomiglia a luoghi percorsi e scossi dalla guerra. Guerra che non si combatte solo tra stati e tra uomini, ma anche contro la natura che si ribella alle imposizioni e alle devastazioni imposte dall’ingordigia degli uomini. Ne sono un esempio ulteriore le immagini di Gianmarco Maraviglia, che mostrano sia le conseguenze delle reazioni della natura alla cementificazione indiscriminata della costa ligure, sia come a un anno di distanza l’uomo abbia fatto riprendere al paesaggio l’aspetto abituale. Dal fango alla sabbia il passo è breve. In un mondo futuro e futuribile, creato dal visionario mangaka Hiromoto, l’acqua è scomparsa e i paesaggi sono fatti ormai solo di sabbia. Dopoché ci si apre alle topografie industriali di Hoppé e Robino, che hanno registrato la trasformazione del paesaggio causate dalla deriva industriale. Che a sua volta è la tematica di USiMAGES, rassegna francese destinata a raccogliere e mostrare le differenti elaborazioni di pensiero di fronte al paesaggio industriale. E per concludere il numero – ma non l’argomento, che verrà analizzato anche nel prossimo numero di FPmag – le conseguenze negative dell’industria sul paesaggio, quando in assenza di controlli prevale l’interesse e ambienti vitali e fondamentali come un fiume si trasformano in luoghi non solo privi di vita, ma anche portatori di morte. |
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