Operaio, Cunard-White Star Lines, Cantieri navali John Brown, Clydeside, Scozia, 1934.
Stampa originale, gelatina ai sali d'argento. © E.O. Hoppé Estate Collection/Curatorial Assistance.
Il segreto svelato. Fotografie industriali, 1912-1937
a cura di Urs Stahel
«Nessuno può starsene in piedi sotto l'arcata di un ponte gigantesco con i suoi piloni svettanti e non sentire quella forza originaria che lo spinge al di sopra della pura fisicità, raggiungendo immensità nascoste alla piena comprensione»
E.O. Hoppé*
È una strana storia quella che sottende la mostra attualmente allestita al MAST di Bologna. Una storia che dimostra come una concatenazione di eventi, spesso fortuiti, possa prima far sprofondare nell’oblio l’opera di un fotografo di successo, quindi riportarla alla luce per restituirgli il posto che gli compete all’interno della storia della fotografia.
Qualcosa di simile è successo di recente attorno alla produzione di Vivian Mayer, la bambinaia degli anni Cinquanta, con la passione per la fotografia, salita agli onori della cronaca in seguito alla scoperta del suo immenso e per certi versi sorprendente archivio fotografico. Ma a differenza di Vivian Mayer, Emil Otto Hoppé – cioè l’autore delle immagini in mostra a Bologna – non era uno sconosciuto fotoamatore, ma un fotografo tedesco che per quasi quarant’anni ha goduto di uno straordinario successo internazionale.
Tra gli anni Dieci e Quaranta del Novecento, Hoppé fu infatti uno dei ritrattisti più noti e celebrati del tempo, dalla fama equiparabile a quella di Stieglitz, Steichen e Strand. Fu anche un apprezzato fotografo paesaggista e di viaggio capace però, nel corso delle sue innumerevoli esplorazioni da un capo all’altro del mondo, di intuire la portata rivoluzionaria del contemporaneo sviluppo industriale. Una consapevolezza e una fascinazione per la modernità che gli fecero ben presto riorientare la propria pratica artistica a favore della topografia industriale, trasformandolo oggi, grazie al filtro del tempo, in uno dei più importanti precursori del genere. Nelle sue immagini c’è una sorta di esaltazione per l’ingegno umano e la tecnologia industriale che rende l’esperienza della loro visione quasi sinestetica, e che ricorda quella manifestata in altre forme e con altre finalità da alcuni movimenti avanguardisti del periodo. In linea con lo spirito del tempo, Hoppé intravide infatti nell’allora avveniristico paesaggio industriale nascente – con i suoi imponenti macchinari, le sue arroganti architetture, le sue superfici lucenti e i suoi rumorosi spazi accelerati – il simbolo di un nuovo ideale di bellezza e, soprattutto, l’inizio di una nuova era in cui non sarebbe stata solo l’estetica del paesaggio a mutare profondamente, ma la natura stessa del lavoro e della produzione. E tale entusiasmo per il moderno non poteva che riversarsi anche nelle strutture interne delle sue immagini e nel suo modo di approcciarsi ad esse. Il suo profilo coincideva infatti ben poco con l’immagine stereotipata dell’artista bohémien del XX secolo, tutto genio, sregolatezza e indigenza: in lui c’era anche il pragmatismo dell’uomo borghese, dell’uomo d’affari membro dell’alta società. |
Ma allora come è possibile che il suo nome e la sua opera siano stati dimenticati per quasi mezzo secolo?
Le ragioni individuate dal curatore Urs Stahel nel testo introduttivo al catalogo della mostra sono molteplici, tuttavia la principale sembra risiedere nel fatto che, quando nel 1954 Hoppé decise di vendere quasi l’intero corpus delle sue opere alla Mansell Collection, i suoi scatti vennero inventariati non per nome ma per argomento, come era consuetudine al tempo: «Il nome Emil Otto Hoppé fu dunque sepolto sotto un principio di catalogazione. Le sue immagini, accorpate per argomenti e luoghi, continuarono a esser disponibili alla consultazione, mentre la ricchezza, l’intensità, il valore, la qualità e dunque il significato complessivo della sua opera si persero nella frammentarietà del sistema di archiviazione». (1) Solo un incontro fortuito con il nipote di Hoppé portò, agli inizi degli anni Novanta, lo storico e critico della fotografia Graham Howe a interessarsi di quell’eclettico fotografo, a lui ancora pressoché sconosciuto, e a verificare ciò che gli aveva accennato, una ventina di anni prima, un altro storico della fotografia, Bill Jay. Le prime ricerche confermarono la sua miopia giovanile – Hoppé era davvero il fotografo più famoso del mondo nel 1920, come affermato da Jay – spingendolo a intraprendere con la sua società un’immane opera di ricerca, organizzazione, catalogazione, conservazione e digitalizzazione di questo tesoro perduto, di cui quasi duecento opere, grazie all’esposizione organizzata dalla Fondazione MAST in collaborazione con E. O. Hoppé Estate Collection/Curatorial Assistance, sono oggi nuovamente offerte agli occhi del mondo.
[ Stefania Biamonti ] (*) - riportato da Urs Stahel in Emil Otto Hoppé: il segreto svelato. Fotografie industriali 1912 -1937, inserito nel catalogo dell'omonima esposizione, MAST, 2015, pag. 8. (1) - Urs Stahel, Emil Otto Hoppé: il segreto svelato. Fotografie industriali 1912 -1937, inserito nel catalogo dell'omonima esposizione, MAST, 2015, pag. 5. |
Il Delaware Bridge, Philadelphia, Pennsylvania, Stati Uniti, 1926.
Stampa originale, gelatina ai sali d'argento. © E.O. Hoppé Estate Collection/Curatorial Assistance.
Forno rotativo in costruzione nel locale caldaie, Fonderia Vickers-Armstrongs, Tyneside, Inghilterra, 1928.
Stampa digitale. © E.O. Hoppé Estate Collection/Curatorial Assistance.
Il Sydney Harbour Bridge in costruzione, veduta dalla zona nord di Sidney, Australia, 1930.
Stampa digitale. © E.O. Hoppé Estate Collection/Curatorial Assistance.
LA MOSTRA
Emil Otto Hoppé: Il Segreto svelato.
Fotografie industriali, 1912-1937
a cura di Urs Stahel
21 gennaio 2015 – 3 maggio 2015*
MAST Photo Gallery
via Speranza, 42 – Bologna
www.mast.org
Orario: da martedì a domenica, ore 10,00-19,00. Chiuso il lunedì
Ingresso: gratuito
(*) Oltre a offrire al pubblico un considerevole numero di fotografie industriali (Livello 1), MAST mette in risalto la ricca varietà tematica dell’opera di Hoppé presentando, nello spazio dedicato a Side event (Livello 0), una serie di proiezioni digitali afferenti ad altri temi, dai ritratti di personaggi celebri ai nudi, dalle tipologie umane ai paesaggi.
Per sapere qualcosa in più sulla figura di Hoppé ritrattista, basta aprire il pannello posto sull'ultima immagine dell'articolo, prima della biografia.
Costruzione del dirigibile LZ127 "Graf Zeppelin", Officine Zeppelin, Friedrichshafen, Germania, 1928.
Stampa digitale. © E.O. Hoppé Estate Collection/Curatorial Assistance.
6 aprile 1929
«Se nell'industria può esserci idealismo può esserci anche poesia, la poesia di creare grandi imprese da piccoli inizi, la poesia dell'avventura e del successo [...] può esserci bellezza e fascino persino in una fabbrica, il fascino del potere della mente umana sulla materia, il fascino di prodezze scientifiche e ingegneristiche, il fascino di un'organizzazione imponente e agile».
E. O. Hoppé
(E.O. Hoppé in Country Life, 6 aprile 1929)
Banchieri, Borsa di Londra, Inghilterra, 1937.
Stampa originale, gelatina ai sali d'argento. © E.O. Hoppé Estate Collection/Curatorial Assistance.
HOPPÉ RITRATTISTA
A cavallo tra gli anni Dieci e Venti del Novecento, Hoppé consolidò la sua fama di fotografo ritrattista. La sua esclusiva clientela annoverava politici, l'alta nobiltà inglese, personaggi di spicco dell'imprenditoria, scrittori, artisti, filosofi e ballerini, cosa che contribuì all'affermazione del suo prestigio internazionale. Successivamente però, quando iniziò a interessarsi maggiormente della realtà sociale, dell'industria e del mondo del lavoro a essa collegato, tra i suoi ritratti cominciarono a comparire anche operai, fonditori, taglialegna, fabbri, banchieri e disoccupati.
Taglialegna australiano, Tasmania, Australia, 1930.
Stampa originale, gelatina ai sali d'argento. © E.O. Hoppé Estate Collection/Curatorial Assistance.
Disoccupato, New York City, Stati Uniti, 1921.
Stampa originale, gelatina ai sali d'argento. © E.O. Hoppé Estate Collection/Curatorial Assistance.
Emil Otto Hoppé - Nato il 14 aprile 1878 a Monaco di Baviera, Hoppé studia disegno con il Prof. Hans von Bartels. Nel 1902 incontra il ritrattista Franz von Lenbach e si trasferisce a Londra, dove lavora per la Deutsche Bank e inizia a fare fotografie amatoriali. Nel 1903 viene eletto membro della Royal Photographic Society e, di lì a poco, il London Illustrated News pubblica dodici suoi ritratti, vince il premio Regular, espone in alcune mostre fotografiche e vince una borsa di studio della Royal Photographic Society (FRPS). Nel 1907 lascia il suo lavoro alla Deutsche Bank e apre il suo primo studio fotografico a Londra. Nel 1909 organizza la sezione della Gran Bretagna alla Mostra Internazionale di Fotografia di Dresda con Sir Benjamin Stone, realizzando le prime vedute topografiche di Londra, lavoro che proseguirà per più di cinquant’anni. Nel 1910 realizza una mostra personale alla Royal Photographic Society, a cui ne seguiranno molte altre in tutto il mondo. In poco tempo diviene infatti uno dei ritrattisti più noti dell'epoca: fotografa i membri della famiglia reale britannica e i più famosi artisti, politici e scienziati europei del tempo, tra cui la ballerina russa Lydia Lopokova, Ezra Pound, Filippo Tommaso Marinetti e Albert Einstein. Nel 1914 viene lanciata la nuova rivista d’arte Colour, di cui diviene redattore per la sezione Arte, mentre nel 1916 contribuisce alla realizzazione dei primi numeri di Vogue Inghilterra con fotografie ed editoriali. Nel 1920, il New York Times annuncia l’arrivo di Hoppé negli Stati Uniti e la sua intenzione di trovare cinque bellezze americane da inserire nel volume in uscita The Book of Fair Women, pubblicato nel 1922. Nello stesso anno pubblica il volume Taken From Life con testi di J. D. Beresford. Consolidata la sua fama di fotografo topografico e ritrattista, tra gli Venti e Trenta attraversa mezzo mondo realizzando molti lavori, spesso su commissione. Obiettivo principale delle sue esplorazioni è però descrivere il fascino e la grandiosità dei siti industriali moderni, di cui intuisce la portata rivoluzionaria. Nel 1930 pubblica Deutsche Arbeit, a cui seguono molte altre pubblicazioni. Rientra a Londra nel 1939, allo scoppio della guerra, ma ricomincerà a viaggiare al termine del conflitto. Nel 1947, sponsorizzato dal Colonia Office, inizia una vasta indagine fotografica e giornalistica in Giamaica. Nel 1954 realizza la mostra A Half Century of Photography alla Foyles Art Gallery di Londra, poi esposta alla Lenbachhaus a Monaco di Baviera e successivamente, tramite il British Council, in India e in Estremo Oriente. Nello stesso anno, sentendo prossima la fine della sua carriera, Hoppé decide di vendere la maggior parte della sua opera a un archivio fotografico di Londra, dove rimane letteralmente sepolta per decenni. Nel 1968, in occasione dei suoi 90 anni, viene fotografato e intervistato da John Hedgecoe per la rivista Queen e la Kodak Gallery realizza una mostra in suo onore. Nel 1972 riceve il Royal Photographic Society Honorary Fellowship, ma il 9 dicembre di quello stesso anno si spegne. Il suo nome sprofonda nell’oblio fino al 1994, quando Graham Howe intraprende con la sua società, la Curatorial Assistance, una vasta operazione di recupero e digitalizzazione della sua intera opera.
Foto: E.O. Hoppé, Autoritratto, Germania, c.1933. © E.O. Hoppé Estate Collection/Curatorial Assistance.
Il fare, il limite, la bellezza. Alle origini di un'Italia industriale
a cura di Enrica Viganò e Camillo Fornasieri
«Fotografo con lo stesso spirito col quale si scolpisce un marmo. Cerco di scavare le mie luci ed ombre e ricavare, con cose vive, quelle forme che tanto mi appassionano»
Stefano Robino
Il mondo del lavoro e i lavoratori, la vita nel Dopoguerra, la nascita dei grandi poli industriali del Nord Italia e la conseguente trasformazione degli spazi urbani e delle periferie. C’era tutto questo nelle immagini di Stefano Robino esposte di recente presso il CMC - Centro Culturale di Milano; questo e molto altro. Attraverso la selezione di fotografie riunita in occasione della mostra si poteva infatti intravedere il profilo di un’Italia in ricostruzione, di un paese desideroso di risorgere e di evolversi, costituito di cittadini ansiosi di lasciarsi per sempre alle spalle la miseria e le macerie della guerra. Anche emigrando, se necessario. Un’Italia ancora fertile, ricca di contraddizioni e di nodi ancora da sciogliere, ma nonostante tutto fiduciosa nel futuro e, soprattutto, nelle sue capacità produttive. Lo sapeva bene Stefano Robino. Entrato nel 1939 come disegnatore tecnico alla FIAT Grandi Motori, grazie alla sua grande passione per la fotografia diviene ben presto uno dei membri più attivi e apprezzati della Sezione fotografica del Gruppo Sportivo Culturale FIAT. Il suo sguardo fotografico non si concentra solo sulla realtà industriale, ma si può dire che con lui la fotografia abbia fatto il suo ingresso ufficiale all’interno dei cantieri italiani. Il suo lavoro gli offriva infatti un punto di vista privilegiato dal quale poteva cogliere la vita quotidiana all’interno degli stabilimenti, le profonde trasformazioni che stava subendo l’intero settore, nonché il rinnovato confronto/scontro tra i lavoratori e i nuovi, giganteschi macchinari. Una posizione perfetta per sperimentare, complice la sua formazione come pittore, un linguaggio fotografico che puntasse dritto all’oggettività del racconto, piuttosto che alla sintesi tra arte e documento in voga in quel periodo tra i circoli fotografici amatoriali. Siamo infatti agli inizi degli anni Cinquanta e, sebbene ancora intriso di un certo retrogusto neorealista, il suo linguaggio espressivo rappresentò una vera novità per l’epoca. |
A livello estetico e formale, la sua fotografia sembrava infatti raccogliere i lasciti di quella stagione del primo Novecento che vide nella testimonianza delle realtà sociali più difficili la funzione principale del mezzo fotografico – si pensi a Lewis Hine e agli scatti realizzati nelle fabbriche americane – per muoversi poi in una direzione inedita che lo condurrà ad ampliare il proprio sguardo e a mostrare non solo l’industria come nuova cattedrale della modernità, ma anche le ricadute e le mutazioni che questa entità nascente (almeno in Italia) provocava sul paesaggio circostante e sulle periferie. Dalle sue immagini si percepisce la consapevolezza di essere di fronte a un cambiamento epocale, all’emergere di un nuovo mondo. Una consapevolezza che sembra far eco a quella mostrata, in maniera totalmente diversa, da Emil Otto Hoppé almeno un paio di decenni prima in altre parti del mondo (cfr. testo precedente). Tuttavia, nelle immagini di Robino non c’è nessuna esaltazione per la modernità, nessuna adesione preventiva. C’è indubbiamente il fascino per questi nuovi ambienti, il rispetto per l’ingegno, la dedizione e l’orgoglio del fare dimostrato dagli uomini che lavoravano al loro interno, ma c’è anche un occhio criticamente attento sulle contraddizioni del mondo dell'industria, sui suoi limiti, e sulle forme che stava assumendo il nascente paesaggio industriale e, con esso, i costumi della neonata Italia industriale. Criticità che veicolò attraverso la commistione di tratti classici e sperimentali, un lavoro accorto in camera oscura e – come spiega il critico Dario Reteuna – «con segni capaci di tramandare messaggi mai superficiali, intimi ma utili, sentiti, commossi ma sorvegliati», a riprova della sua caratura autoriale che lo rese ben presto noto in tutto il mondo.
[ Stefania Biamonti ] |
Stefano Robino, FIAT Grandi Motori: interno di motore navale con biella e albero a gomito.
24,4 x 16,3 cm.
Stefano Robino, Torino: mattino tra edifici del Cottolengo.
40 x 30,5 cm.
LA MOSTRA
Stefano Robino. Il fare, il limite, la bellezza.
Alle origini di un'Italia industriale
a cura di Enrica Viganò e Camillo Fornasieri
25 novembre 2014 – 8 febbraio 2015*
CMC - Centro Culturale di Milano
via Zebedia, 2 – Milano
www.centroculturaledimilano.it
Orario: da lunedì a venerdì, ore 10,00-13,00 e 15,00-19,00;
sabato e domenica, ore 16,00-20,00.
Ingresso: gratuito, gradita offerta libera.
(*) L’esposizione in oggetto è ormai conclusa, tuttavia è possibile visionare alcune opere dell’autore, sul tema, grazie alla mostra Quel che resta del giorno del Circolo Fotografico La Gondola, in cui è presente la sezione intitolata L’Italia positiva di Stefano Robino. Fotografie 1951-1969. L’esposizione rientra nell'ambito della rassegna Tre Oci Tre Mostre e resterà allestita a Venezia, presso la Casa dei Tre Oci (Fondamenta delle Zitelle, 43 - Isola della Giudecca), fino al 12 aprile 2015.
Stefano Robino - Nato nel 1922 a Torino, dove risiede tuttora, Stefano Robino inizia la professione come disegnatore tecnico alla FIAT Grandi Motori nel 1939 e, nel 1940, comincia a fotografare. Dopo la guerra si dedica all’attività di pittore, frequentando nel tempo libero gli studi dei pittori Sartorio e Spazzapan ed esponendo le proprie opere in diverse mostre personali e collettive. Ben presto, la sua passione per la fotografia lo porta ad aderire alla Sezione fotografica del Gruppo Sportivo Culturale FIAT e a farsi coinvolgere nella vita espositiva e culturale del gruppo. Il suo sguardo si concentra su realtà facenti parte del proprio vissuto, su percorsi di vita collettivi e, soprattutto, sul mondo del lavoro e della vita sociale, della periferia cittadina e del nuovo nascente paesaggio industriale. Le sue immagini, veicolate attraverso le mostre e una cospicua periodistica nazionale e internazionale, gli varranno molti premi, consensi e notorietà in tutto il mondo. Nel 1965 diventa responsabile del laboratorio fotografico della FIAT Grandi Motori di Torino, mentre tra il 1971 e il 1974 è responsabile dell’Ufficio Pubblicità della Grandi Motori Trieste. Le sue fotografie sono state pubblicate su numerose riviste internazionali, tra cui LIFE, US Camera, ModernPhotography, PopularPhotography, LEICA Fotografie, La Stampa, Ferrania, L’Europeo, Rivista Italiana e Progresso Fotografico. Nel 2002 i nuovi uffici della Direzione, Organizzazione, Pianificazione, Sviluppo e Gestione delle Risorse Umane della Regione Piemonte sono stati arredati con cento suoi grandi pannelli fotografici.
Foto: Stefano Robino, Alla partenza della Cristoforo Colombo, Genova 1957. 45,7x36,1 cm.
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