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iLeft 3 Days. © Mak Remissa/Asia Motion.

mak remissa

left 3 days

«Gli americani stanno per bombardare Phnom Penh. - hanno detto - Lasciate subito la città. Non c'è bisogno che prendiate le vostre cose»**

Elizabeth Becker


Nemmeno quattro anni, dalla caduta di Phnom Penh nelle mani dei Khmer Rossi il 17 aprile 1975 all'occupazione della capitale cambogiana da parte delle truppe vietnamite il 7 gennaio 1979: tanto è bastato per compiere quello che è passato alla storia come il genocidio cambogiano.

A tutt'oggi non è possibile dare una dimensione numerica alla tragedia. Secondo le stime della CIA, i giustiziati sarebbero compresi tra 50.000 e 100.000, mentre il regime posto al governo dal Vietnam dichiarò 3,3 milioni di morti. Pol Pot ammise circa 800.000 morti, ma studi governativi americani e dell'Università di Yale fissano le stime rispettivamente a 1,2 milioni e 1,7milioni. Amnesty international fissa invece il tetto dei decessi a 1,4 milioni. Altre fonti parlano di 2 milioni.

A parte le esecuzioni, è difficile calcolare quanti possano aver perso la vita indirettamente. Nel delirio di quei quattro anni ci fu infatti anche la corsa alla completa autosufficienza del paese a contribuire alla tragedia. Nelle campagne fu richiesto di quadruplicare la produzione di riso, furono chiusi gli ospedali e si perseguì perfino l'autarchia nella produzione dei medicinali, con il risultato di far morire anche chi contraeva malattie curabili come la malaria.

L'inizio di questo dramma per gli abitanti di Phnom Penh inizia con l'evacuazione della città senza reali giustificazioni. I cittadini della capitale ebbero tre giorni di tempo per abbandonare le loro case e incamminarsi verso le campagne in uno scenario spettrale di morte e terrore. Giovani, vecchi e bambini affrontarono un trasferimento terribile. Lo spettacolo davanti ai loro occhi era devastante. I ricordi di chi è stato segnato da quei momenti parlano perfino dell'impossibilità di approvvigionarsi di acqua per la presenza di cadaveri nei corsi d'acqua. Inevitabile, quindi, che un'esperienza di questo tipo rimanesse nella memoria di chi l'aveva vissuta in giovanissima età.

Per circa quaranta anni le componenti della memoria sensoriale (memoria eroica e memoria iconica) hanno mantenuto vive le sensazioni di quei giorni terribili, trasformandosi in memoria a lungo termine. Il fattore episodico e quello emozionale hanno urlato nell'animo di quel bambino di quattro o cinque anni che aveva vissuto un esodo terribile. E hanno continuato a perseguitare la sua anima anche quando, ormai diventato adulto, il peso di quel vissuto è diventato insostenibile. Un peso che si può, forse, spiegare a parole, ma non si può mostrare, perché i ricordi non hanno sostanza fisica, non si possono prendere da un cassetto e offrire allo sguardo altrui.

A meno che non li si trasformi nella materia prima per un'elaborazione che miri a conferire loro una forma fisica, percepibile al mondo. Una forma che trova la sua concretezza nella costruzione attraverso il ritaglio delle figurine che si aggirano nelle campagne intorno a Phnom Penh, per dare materialità all'immaterialità della memoria grazie all'atto fotografico che permette di fissare il ricordo nella sua ricostruzione a posteriori.

Un'operazione per altro certo non infrequente nel mondo della fotografia contemporanea, basti pensare ai lavori di Ventura, a operazioni come quella di Maurizio Valdarnini o di Azadeh Akhlaghi. In questi lavori, però, la scenografia e gli eventi proposti attingono a repertori di memoria collettiva, assunti per trasmissione orale, studio o attraverso i media. Non appartengono, in altre parole, a una memoria derivante da un vissuto personale.

La grande intensità emotiva che accompagna Left 3 Days prende quindi tutto il suo vigore nella contestualizzazione, e l'intero lavoro sembra paradossalmente invertire il concetto stesso di memoria eidetica. Se infatti con questa definizione identifichiamo quell'immagine mentale che si forma a seguito dell'esposizione a un quadro o a una fotografia e che tende a perdere forza in un volgere di tempo breve, in questo caso è l'immagine mentale a generare quella fisica destinata a perdurare nel tempo.

E proprio in questa genesi si manifesta anche la funzione catartica dell'atto creativo, grazie alla quale l'immagine mentale di una tragedia incomprensibile inizia a sciogliersi nel momento stesso in cui il ricordo comincia ad assumere forma tangibile attraverso la costruzione dell'immagine fotografica. La dolorosa potenza del ricordo viene trasferita nell'immagine fisica e condivisa con il mondo, sgravando l'autore, che certo non può cancellare la sua esperienza, ma può finalmente alleggerire il peso di un terribile carico emotivo sopportato per decenni.

[ Sandro Iovine ]


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(*) - Left 3 Days è stato esposto nel corso dell'11 edizione dell'Angkor Photo Festival & Workshops.
(**) - Elizabeth Becker, Bophana, Cambodia Daily Press, Phnom Penh, 2010; pag. 20.

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[ RISORSE INTERNE ]
◉ [ mostre ]
Left 3 Days: la mostra
[ video ] Sul filo dei ricordi: intervista a Mak Remissa
[ FPtag ]
Angkor Photo Festival & Workshops 2015

iLeft 3 Days. © Mak Remissa/Asia Motion.

iLeft 3 Days. © Mak Remissa/Asia Motion.

iLeft 3 Days. © Mak Remissa/Asia Motion.

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iLeft 3 Days. © Mak Remissa/Asia Motion.

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Mak RemissaMak Remissa - Nato nel 1970, lascia Phnom Penh nel 1975 in seguito all'occupazione della città da parte dei Khmer Rossi per rifugiarsi nella provincia di Takeo. Nel 1995 si diploma in Fine Art and Photography alla Royal Fine Arts School di Phnom Penh. Mak Remissa ha lavorato per Reuters e, dal 2010, è membro dall'agenzia Asia Motion e lavora per l'EPA (European Pressphoto Agency). I suoi lavori sono stati esposti nel 2011 all'Angkor Photo Festival & Workshops, nel 2012 allo Yangon Photo Festival e presso l'Institute of Contemporary Arts di Singapore, nel 2014 allo Xishuangbanna Festival in Cina e nel 2015 al PhotoPhnomPenh e all'Angkor Photo Festival & Workshops.


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