«In trentʼanni – afferma Yulia Knish – si sovrappongono due sradicamenti, tre lingue (russa, ebraica e italiana) e tre identità nazionali». Un'esperienza in cui la necessità di fare ordine, recuperare le molteplicità della propria anima, allineare la variegata complessità delle culture di cui è stata ed è partecipe, si esprime in un sincretismo iconico che riannoda i fili di un'identità inevitabilmente poliedrica.
Nel territorio della memoria si riaffacciano le esperienze e il sentire che hanno accompagnato i primi anni di vita, tra l'ingenua vanità di un fard tradizionalmente interpretato dalla colorazione offerta all'epidermide dal passaggio di una rapa rossa sulle guance, naturale make up contadino, e l'inconfessabile invidia per un mondo occidentale lontano e proibito. Bishkek, città in cui è nata Yulia Knish, fa parte delle province più remote di un impero sovietico prossimo alla caduta. Il Kirghizistan all'inizio degli anni Ottanta è ben lontano (non solo geograficamente) da Mosca, quella Capitale borghese e corrotta dove tutto si può trovare perché l'Unione Sovietica non è seconda a nessuno nel mondo e può offrire ai propri cittadini tutto ciò di cui il mondo capitalistico occidentale dispone. Ma a Bishkek, così distante dal centro del potere, le cose sono differenti. Chi aspira a una vita diversa, magari più simile a quella dell'Occidente, deve covare il suo sentimento in silenzio. E sono in molti a non poter manifestare il desiderio di una quotidianità altra. Si arriva al paradosso che perfino un frutto esotico, comune sui banchi dei negozi di frutta dell'Occidente e più che reperibile a Mosca, assurge nel Kirghizistan sovietico al ruolo di simbolo di un'aspirazione repressa e si trasforma in ali di libertà che spuntano sulla schiena. Così come i personaggi disneyani compaiono sul colbacco come pensieri rivolti a un Occidente, detestato quanto desiderato.
Ma il desiderio di libertà non è puro senso di ribellione più o meno impossibile. Si mescola e si fonde senza soluzione di continuità con la dusha, l'anima russa, e con il suo portato di tradizione. Nel tempo finisce inevitabilmente per riaffiorare tra i ricordi e si trasforma in immagine. In parte si fa nostalgia al cospetto di una falce e un martello, icone dell'utopia sovietica, che negli anni hanno finito per perdere il loro fulgore mistico, scivolato sotto una patina di ruggine elargita dal tempo.
Lasciato il Kirghizistan, per Israele prima e per l'Italia poi, il trauma del dislocamento in altre terre, dei cambiamenti di lingua e l'acquisizione di nuove abitudini finiscono per stemperarsi nella conquista di piccole e grandi libertà prima negate. Nel nuovo orizzonte di vita si manifesta l'apertura verso l' Altro, contribuendo alla definizione di quel senso dell'identità che vive attraverso la percezione dell'alterità. Non è solo un processo di salvaguardia della propria memoria, ma anche (e forse soprattutto) di riconoscimento quello di cui si fa carico l'immagine fotografica. In essa, infatti, si assomma il portato dell'individuo che, nel suo continuo divenire, mette in discussione l'esclusivismo monoculturale conosciuto nella prima fase di vita, per riconfigurare in modo polisemico il concetto stesso di identità. Presente e passato possono contaminarsi a vicenda, fondersi, senza per questo negarsi o rinnegarsi, nella prospettiva di un futuro di apertura che partecipi di tutte le componenti del portato individuale, facendole convivere in un'identità nuova e in continua evoluzione.
[ Sandro Iovine ]
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(*) - Selezionato al
Behance Portfolio Review nell'ambito di Fotografia Europea 2015.
(**) - Jonathan Safran Foer,
Ogni cosa è illuminata, Guanda, Parma, 2002; pag. 238-239.
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