Stephen Paddock era uno sconosciuto fino al Primo ottobre 2017, prima cioè che legasse il proprio nome alla strage di Las Vegas. Un episodio sconvolgente sotto più punti di vista: per le dimensioni (59 morti e oltre 500 feriti), per le ombre che, a torto o a ragione, l'estremismo islamico tenta di allungare sulla vicenda e per il portato sulla vexata quaestio delle armi nella Nazione a stelle e strisce.
Uno screenshot dalla galleria dedicata a Matthew Cobos pubblicata dsu repubblica.it.
Di fronte a un simile atto di brutalità è necessario reagire con prontezza, restituire sicurezza alla gente prima che l'incertezza serpeggiante diventi endemica. E quale antidoto può essere più potente delle armi di distrazione di massa? Ecco, dunque, spuntare nelle pagine dei mezzi di informazione di tutto il mondo (sì, anche in Italia) la figura dell'eroe, unico degno contraltare alla tragedia, destinata a rinfrancare gli animi spossati dall'inconcepibile. In un solo giorno il termine eroe è speso per due giovani coinvolti nell'assurda vicenda di Las Vegas: Matthew Cobos e Jonathan Smith. Senza nulla togliere al valore di quanto hanno fatto, questi due giovani diventano loro malgrado i testimonial ideali dei valori positivi di un'America ferita.
Uno screenshot dalla galleria dedicata a Matthew Cobos pubblicata su Repubblica.it.
Matthew Cobos è un militare. Ci viene mostrato in divisa da combattimento, presumibilmente durante un trasferimento. Incarna una virile combattività che ispira alla reazione, complici gli occhiali da sole che, nascondendo gli occhi, rendono la sua espressione più decisa, a dispetto dei lineamenti quasi adolescenziali (e del fatto che il suo nome nell'immagine appaia rovesciato, come del resto la scritta che lo identifica come appartenente all'esercito degli Stati Uniti). In una seconda immagine, impettito e fiero, giace sull'attenti davanti a un mezzo blindato. Un giovane maschio bianco, dal volto onesto in cui può riflettersi alla perfezione la faccia pulita e patriottica di un'America disorientata. Un ritratto, quello costruito per mezzo delle immagini, completato da una terza fotografia in cui Matthew Cobos appare sorridente in abiti civili. Insomma, un esempio perfetto di corrispondenza a uno stereotipo che si sublima in quell'atto di protezione della ragazza a terra durante la sparatoria. Un gesto che, come una bandiera, sta facendo il giro del mondo.
Uno screenshot dalla galleria dedicata a Jonathan Smith pubblicata da Repubblica.it.
Jonathan Smith, invece, lo vediamo seduto in una sala d'aspetto che supponiamo di ospedale. È a torso nudo, un asciugamano sulla spalla destra e un vistoso cerotto su quella sinistra. Non incarna l'eroe guerriero. La sua postura semmai sembra di attesa passiva. Sembra quasi chiedersi, un po' perso dietro quelle lenti circolari, per quale motivo sia finito in quel posto con la prospettiva di portarsi a vita un proiettale incastonato nella carne. È l'altra faccia dell'America, quella pacifica, quella del volto di un mite e bravo cittadino destinato a trascorrere la sua vita riparando fotocopiatrici.
Uno screenshot dal supporto audiovisivo di una lezione per la cattedra di Sociologia della comunicazione di massa presso l'Università per Stranieri di Perugia. @ Sandro Iovine.
Immagini che non vivono da sole, ma sono contestualizzate all'interno di un testo sincretico ad alto coefficiente di retorica a buon mercato. Fotografie che fanno il loro sporco lavoro rilanciando riflessioni destinate a restituire fiducia circa un futuro positivo per la Nazione. Icone che mirano a rassicurare, a ristabilire gli equilibri di uno status quo preesistente.
Un espediente non troppo dissimile da quello utilizzato all'indomani dell'11 settembre 2001. Allora erano state recuperate (e mediaticamente sovraesposte) alcune immagini del post tragedia, in cui l'eco di momenti di gloria e vittoria veniva proposto in una similitudine formale. Un suggerimento poco meno che esplicito dell'idea che, anche questa volta, lo zio Sam sarebbe riuscito a schiantare l'odioso e vile avversario dopo le... tradizionali sberle iniziali (l'attacco di Pearl Harbour non era stato certo meno traumatico di quello al World Trade Center).
La fotografia, analogon per eccellenza, continua a mantenere un ruolo fondamentale nei processi di coinvolgimento al potere delle masse per mezzo di testi sincretici destinati alla manipolazione del pensiero collettivo. Un pensiero che, necessario nei confini nazionali, viene pedissequamente ripreso in tutte le aree di influenza.
Niente di nuovo, certo, le immagini possono essere utilizzate per molti scopi e non sempre questi sono dichiarati ed evidenti a un primo sguardo. Il problema è rimanere vigili per essere in grado di decidere se aderire o meno al messaggio proposto. Altrimenti si rischia di essere solo inerti burattini che non si rendono nemmeno conto della presenza di quei fili invisibili che li stanno facendo muovere. Fili che, tra le tante forme, possono assumere anche quella di immagini apparentemente innocue.
Viene quasi voglia di chiosare parafrasando Humphrey Bogart: «That's the image, baby. The image! And there's nothing you can do about it. Nothing!». È l'immagine bellezza e non puoi farci niente, salvo provare a essere consapevole di come viene utilizzata... [ Sandro Iovine ]
pubblicato in data 06-10-2017 in NOTIZIE / OPINIONI
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